In Ungheria, cuore della Mitteleuropa, sta avvenendo qualcosa di atipico, che l’opinione pubblica occidentale ha finito per considerare estraneo e finanche pericoloso, a seguito di un addomesticamento culturale passato negli anni attraverso fitte campagne mediatiche atte a promuovere quello liberista come l’unico, valido modello di sviluppo.
Succede che il tricolore magiaro sormontato dalla corona di Santo Stefano è tornato a sventolare nel cielo plumbeo di Budapest, per affermare una sovranità nazionale che favorisce il popolo e terrorizza i banchieri.
Il primo gennaio è entrata in vigore la nuova Costituzione ungherese, voluta dal governo di Viktor Orbán ed approvata nell’aprile scorso dal Parlamento (dove il partito di governo Fidesz gode di due terzi della maggioranza). La nuova Carta, redatta con accenti che rievocano antichi lustri d’identità nazionale, è contraddistinta da una serie di provvedimenti che mirano a ricostruire un potere sovrano. Al suo interno spiccano tuttavia misure controverse, che hanno generato malumori giacché limitative di alcune, definite da molti “derive etiche” e da altri “libertà individuali”. In nome della tradizione cristiana, cemento dell’unità e motore dello sviluppo storico dell’Ungheria, l’esplicita frase iniziale “Dio benedica gli ungheresi” indica l’assetto culturale su cui si basa tutto l’impianto della nuova Costituzione. L’embrione, anzitutto. La nuova Carta lo considera un essere umano fin dal suo concepimento, così sgomberando il campo della discussione sulla liceità dell’aborto da equivoci derivanti dal mese di gravidanza. Il matrimonio, poi. E’ autorizzato espressamente solo quello tra un uomo e una donna. Inoltre, le comunità religiose che potranno beneficiare di sovvenzioni pubbliche vengono portate da 300 a 14, un taglio che va a discapito solo di ristrettissime minoranze e che consente cospicui risparmi per le casse dello Stato, dunque per la comunità tutta. Sempre a vantaggio del popolo ungherese, spunta una norma che fissa per tutti l’aliquota fiscale al 16% (attualmente l’Ungheria, con il suo 27% di valore normale dell’aliquota, è il Paese dell’Unione europea con la percentuale di imposta più alta). Le misure in ambito economico sono proprio quelle che maggiormente preoccupano l’estero, rappresentato soprattutto in questa campagna anti-ungherese dalle lobby della finanza, colpite nei loro interessi particolari dalla svolta costituzionale di Viktor Orbán. Con la nuova Carta, infatti, la Banca centrale ungherese dipende direttamente dal governo: il Primo ministro sceglie i suoi assistenti, inoltre sei dei nove membri del consiglio monetario della Banca centrale sono nominati dal Parlamento. Questo cambio di registro non fa che complicare i già tormentati rapporti tra la Banca centrale ungherese e agenti esterni della finanza, ovvero Fondo Monetario Internazionale e istituzioni finanziarie europee. Nel settembre scorso il sistema bancario internazionale è entrato ufficialmente in rotta di collisione con l’Ungheria. Durante quel mese, per arginare la crisi derivante dal debito pubblico più alto in un Paese dell’Est, il governo Orbán ha favorito i suoi cittadini che avevano contratto un debito con le banche in valuta straniera svalutando forzosamente la moneta nazionale. Lo strappo ha generato una svalutazione del fiorino ungherese di circa il 23%, di oltre il 12% se in euro. Ciò significa che occorrono meno fiorini per ripagare il debito, di fatto la svalutazione si trasforma in uno sconto. Come se non bastasse questa rivoluzionaria riforma finanziaria, si è imposto per legge che la differenza tra il valore nominale del cambio monetario e quello reale venga imputato agli istituti di credito che sono detentori dei debiti.
Quella manovra approvata a Budapest a settembre ha creato intorno all’Ungheria uno stuolo di nemici acerrimi facenti capo all’alta finanza, molto temibili per via del loro indiscutibile potere economico e pronti a sferrare un agguato non appena si fosse presentata occasione propizia. Solo oggi, un’ondata di costernazione popolare contro la nuova Costituzione – fisiologica in ogni Paese democratico, specialmente in tempi di crisi – è diventato lo strumento che questi nemici stanno brandendo all’indirizzo dell’Ungheria. La stampa occidentale finanziata dal grande capitale trasforma così la pur partecipata manifestazione di dissenso in riva al Danubio dello scorso 2 gennaio in “oceaniche sfilate di massa”, tacendo invece su un consenso equivalente al 52,7% dei voti che hanno consentito ad Orbán e al suo governo, nell’aprile 2010, di insediarsi. Ma non solo. La stampa occidentale, pur di diffamare il presidente magiaro e il suo governo, rispolvera anche l’evidentemente mai sopito (dalle coscienze di certi intellettuali) nostalgismo vetero-marxista. Ecco che una colpa di Orbán diventa quella di aver nominato personalità nuove in settori dirigenziali della cultura, sinora monopolio assoluto di ristrette cerchie legate al cupo passato comunista del Paese. Un’altra colpa? Quella di voler rimuovere la statua, piazzata proprio davanti al Parlamento, del poeta di origini rumene Attila Jozef, celebre cantore dell’ideologia marxista. La quale ideologia marxista – è bene ricordarlo agli smemorati – ha causato all’Ungheria, durante la sola insurrezione ungherese del 1956, l’orrore di 2.652 morti e 250.000 feriti (il 3% di tutta la popolazione).
Intanto, la guerra contro l’Ungheria è iniziata anche su altri fronti, oltre a quello giornalistico. Le speculazioni finanziarie che hanno colpito il mercato ungherese sortiscono effetti devastanti. Standard & Poor’s, a seguito delle recenti dinamiche borsistiche che hanno sfavorito Budapest, ha definito il rating (l’affidabilità economica) dell’Ungheria uno “junk”, ossia spazzatura. In campo politico, invece, è l’Unione europea che fa la sua parte, avendo minacciato il Paese magiaro di sospendere gli aiuti economici dopo l’entrata in vigore della nuova Costituzione. Dal canto suo, il governo di Orbán non sembra intimorito e invita la Commissione europea al dialogo. “Abbiamo inviato il testo (della nuova Costituzione, NdR) a Bruxelles. Se la Commissione troverà punti di cui discutere, noi siamo pronti alle consultazioni, siamo aperti” ha riferito Peter Szijjarto, portavoce del premier.
Questo scenario di ostracismo anti-ungherese rende legittimo un quesito: più corretto definire dittatura la svolta nazionale, autoritaria e sociale di Viktor Orbán o le bieche operazioni della finanza internazionale che mirano a soffocarne le aspirazioni sovrane?
Federico Cenci
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